a cura di Simona Lancioni
«La piena ed effettiva partecipazione e inclusione nella società» delle persone disabili è uno dei principi generali della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (art.3, lettera C). Ma cosa vuol dire, in concreto, applicare il principio di inclusione in un ambito molto specifico come quello della sessualità delle persone disabili? Diamo spazio a quattro opinioni femminili. «Inclusivo è ciò che accomuna, che rende accolti e insieme ci interroga su cosa vuol dire essere accoglienti» spiega Maria Cristina Pesci, donna con disabilità, medico, psicoanalista e sessuologa che si occupa di “sessualità e disabilità” da tanti anni, e ha curato molti lavori sul tema. «La vera sfida, oggi, per parlare di sessualità e affettività delle persone disabili è affidare al corpo una pienezza di senso e di valore. Perché non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo» sottolinea Valeria Alpi, giornalista, caporedattrice della rivista «HP-Accaparlante», ha pubblicato monografie sulla maternità delle donne con disabilità fisiche e sensoriali, e sulle tematiche della sessualità delle persone disabili, inoltre ha collaborato alla realizzazione del documentario «Sesso, amore & disabilità». «Il diritto alla sessualità non può essere riconosciuto per legge, né normato garantendo la vittoria a tavolino. E’ un percorso da riconoscere e vivere passando attraverso altre vie, è un allenamento sul campo, è un intero campionato da giocare in squadra, prima con sé stessi e poi con chi ci circonda» osserva Francesca Arcadu, donna con disabilità e componente del Coordinamento del Gruppo donne UILDM, un gruppo impegnato anche sul “fronte” sessualità già dalla sua costituzione, nel 1998. L’ultimo intervento l’ho scritto io stessa, Simona Lancioni, coniuge di una persona con disabilità, ed anch’io componente del già citato Coordinamento del Gruppo donne UILDM.
INDICE Voglio essere un’alchimista di Maria Cristina Pesci Il diritto al corpo di Valeria Alpi Vogliamo il pane e le rose… ma siamo pronti a coglierle? di Francesca Arcadu Proporsi come persone speciali oppure no, questo è il problema di Simona Lancioni
Voglio essere un’alchimista
di Maria Cristina Pesci
Non è forse vero che parlare di sessualità e di cosa evoca ragionare su un’idea inclusiva di questa “dolce follia”, implica chiedersi una volta di più se siamo disponibili a pagare con qualcosa di noi?
Questo per dire che se parliamo di sessualità e di disabilità, siamo tutte e tutti noi, persone con o senza disabilità, chiamati a fare i conti con le nostre esperienze, i nostri valori, i nostri punti irrinunciabili, le nostre incertezze, le possibili paure, i desideri più visibili e quelli che nascondiamo ai nostri stessi occhi: la nostra stanza dei desideri viene aperta, illuminata e a poco serve cercare di chiudere gli occhi con le mani, come fanno i bambini più piccoli, quando cercano di non farsi trovare.
Parlare di sessualità significa rischiare. Si tocca la pienezza ma anche il vuoto, l’appagamento e insieme i possibili abbandoni, il sogno e la concretezza, i segni gridati dal corpo e i sentimenti che bucano le stelle. Si toccano incertezze ed emozioni contrastanti, se ci concediamo di entrare appunto nella nostra stanza dei desideri. Occuparsi di sessualità includendo le persone con disabilità, non evoca immediatamente il rifiuto? Rifiuto di parlarne, di immaginare, di concedere cittadinanza, di identificarsi. Implica affrontare l’idea immediata di cancellazione del diritto di desiderare e ancor più di sognare di essere desiderati. Come prima reazione si travolgono e si abbattono i tanti possibili rispecchiamenti reciproci. Il piacere e l’amore spariscono dal vocabolario condiviso. C’è qualcosa di più disperante del rischio di trovarsi di fronte al vuoto di desiderio?
L’inclusione rispetto alla sessualità semplicemente significa riconoscere questi aspetti e subito ripartire dalla comune umanità, dal sentire comune, dal diritto all’integrità di essere Persone Intere, la mia libertà e la tua sullo stesso piano di dignità, il mio desiderio e il tuo sullo stesso piano di insindacabile verità per ciascuna/o di Noi.
La sessualità legata alle persone con disabilità evoca invece soprattutto inganno, violenza, prevaricazione, incesto, vergogna e spogliazione di ogni sentimento che abbia a che fare con l’amore. Ci si ritrova nudi, fotografati senza discrezione, come animali strani che rinchiusi in cattività, cercano di imitare qualcosa di più grande di loro.
E qui introduco anche il tema della “cura”, nel senso del prendersi cura, di quella spinta umana a cooperare, a condividere, ad identificarsi reciprocamente, a costruire legami buoni, a immaginare un’appartenenza. Prendersi cura di sé o dell’altro comporta comunque fare i conti con il tema del desiderio, in ogni suo aspetto. Come può non essere così anche rispetto alla sessualità?
Chi sa davvero prendersi cura, non entra nemmeno nelle categorie del giudizio, e proprio per questo suo saper resistere e non cedere al costruire gerarchie, sa davvero curarsi del bisogno dell’altro.
E’ un modo sia femminile che maschile che sa resistere alla cultura del dominio sull’altro, che piuttosto si mette al fianco senza avere pronte le risposte, tollerando di non sapere, dandosi il tempo di pensare con l’altro.
Essere inclusivi significa non giudicare a priori, non ragionare per categorie, che a sua volta implica non difendersi quando l’unica minaccia in gioco non è la propria incolumità, ma lo scoprirsi simili, forti e vulnerabili insieme, anche rispetto alla sessualità, come tutte e tutti.
Proprio come nel preambolo della Convenzione ONU, ne va della mia dignità, della mia integrità, del mio diritto di scegliere, di essere semmai aiutata/o a comprendere i rischi e a decidere per me.
Significa anche esporsi! A volte mi sono sentita molto “diversa” e isolata nell’esprimere ciò che penso e nel sottolineare le contraddizioni che emergono, ad esempio, sulla figura dell’assistente sessuale, oltre all’estrema semplificazione che si fa in questo modo, rispetto alla sessualità, quando riguarda persone con disabilità. E’ per me una risposta ghettizzante, “speciale” in senso discriminante, altro che inclusione! E’ un rimedio peggiore del male che si vorrebbe curare, è la negazione di ogni dignità di persone, si diventa oggetti e non soggetti e interlocutori primi di sé… è un modo di mettersi al riparo (come persone non disabili), rispetto a ogni possibile coinvolgimento e senso di una comune appartenenza all’essere persone umane, è una illusoria soluzione che acquieta chi si sente incapace di “essere” con l’altra/o.
E poi, detto tra noi, chi desidererebbe per sé essere portato da qualcuno, con le parole, toccando la tua pelle, il tuo corpo, la tua essenza, perché questo è il nostro corpo, alle soglie del quasi-rapporto sessuale… o giù di lì, per poi sentirsi dire “tempo scaduto… o meglio, “confini” sfiorati… più in là non si va. Mi fa ridere immaginarlo, se non fosse che è una vera e propria ferita. E’ una contraddizione in termini, ancor più per chi avesse difficoltà cognitive… ancor più non facendo distinzioni tra le tante differenze: di esperienze, di desiderio, di sentimenti in gioco, di identità di genere …
Non voglio che nessuno dica per me come deve essere la mia vita, nessuno!
Questo ho imparato e questo vorrei regalare. Questo dovremmo cercare a tutti i costi di insegnare alle persone, fin da piccole, renderle sempre più consapevoli di loro stesse, ancora di più se dovranno fare i conti per tutta la loro vita con l’inevitabile realtà di essere dipendenti dal sostegno di altri. Non per rinunciare o alzare la soglia dei sogni e dei desideri per cui lottare, ma per avere l’opportunità di saper chiedere, stare con gli altri, misurarsi nella reciprocità che le relazioni richiedono, sentirsi degni di DARE, perché con qualcosa di buono dentro, e non solo ricevere, perché in difficoltà per la presenza di una disabilità.
Perché dovrebbe essere diverso per la vita sessuale?
Voglio prendermi la sconfitta dritta in faccia, se qualcuno non mi vuole, che sia a causa o nonostante la mia disabilità.
Voglio prendermi anche la felicità tutta intera, sorprendente e indescrivibile, se invece qualcuno mi vuole, perché sono io, tutta intera.
“Un vero alchimista dal veleno ottiene l’antidoto. Un vero alchimista dal dolore ottiene la guarigione.” (Mujer Arbol). Solo dall’essere il più possibile messi in grado di partecipare alla nostra propria vita, nonostante le disabilità, possiamo trasformare anche il dolore e i limiti nella fierezza della nostra completa identità, e l’identità di ciascuna persona non è tale se esclude la sessualità.
La sessualità, per ciascuna/o di noi, con o senza disabilità, non può che essere inclusiva. Cos’altro potrebbe o dovrebbe essere? Lo è per definizione.
Chiedersi, per ogni possibile ragionamento o percorso di cura, se ciò che stiamo considerando sia inclusivo o meno, credo sia indispensabile: ci aiuta a pensare in termini di rispetto e insieme in termini di concreta fattibilità. Chi ipotizza soluzioni o risposte specifiche per le sole persone con disabilità, crea risposte esclusive, l’opposto dell’inclusione, e opera in termini di competenze, del saper fare e non del saper essere. Allora chi è più disabile di chi? Chi è più capace? … ma anche: chi è più affascinante-desiderabile-amabile….?
Credo fortemente che non dobbiamo farci addormentare il pensiero! Non è troppo complicata/o, moralista, inibita/o oppure a corto di sesso chi non si imbarca nelle facili soluzioni, chi non si accontenta di far stare tranquille e più controllate le persone disabili, chi non se la racconta che insegnare a masturbarsi, ammesso che ce ne sia bisogno, invece che imparare a esprimere e capire sé, risolva tutti i problemi.
Dovremmo piuttosto far di tutto perché nella rete i professionisti, sia in ambito medico che culturale e sociale, sappiano dialogare tra loro, e per prima cosa con le persone interessate.
Dovremmo sostenere davvero le famiglie perché non siano più o meno tacitamente accettati comportamenti incestuosi, frutto della solitudine, dell’imbarazzo e del senso di colpa che così si trasforma in onnipotenza devastante per tutte le figure coinvolte.
Dovremmo ribadire “nulla su di noi senza di noi” come progetto di responsabilizzazione e scelte condivise, anche in tema di sessualità.
Dovremmo favorire in tutte/i la capacità di tollerare la non-guarigione e proprio per questo non scegliere per l’altra/o, ma costruire insieme a partire dai bisogni di ciascuna/o.
Forse le proposte maggiormente inclusive sono quelle che nascono in partenza con un concetto fondante che pensa di fornire servizi, partendo dai bisogni, accogliendoli, non definendoli a priori partendo da “categorie”: persone con disabilità, persone straniere, persone anziane, ecc.
Nel prenderci cura degli altri, tutti noi potremmo ricordare che stiamo cercando di curare le nostre parti ferite e più vulnerabili.
Come ha detto ridendo un caro amico a cui stavo spiegando la figura dell’assistente sessuale per persone con disabilità: “… ma è un’idea fantastica, lo voglio anch’io! Dovrebbe essere previsto per tutti! Sai quanti ne avrebbero bisogno?”
Detta così mi piace, appunto, l’opposto di una soluzione discriminante e sciacqua coscienze.
Inclusivo è ciò che accomuna, che rende accolti e insieme ci interroga su cosa vuol dire essere accoglienti.
Il diritto al corpo
di Valeria Alpi
Mi ricordo che frequentavo le scuole medie e il seno mi diventò prosperoso. Chiesi a mia madre di andare insieme a comprare un reggiseno, perché senza mi sentivo in imbarazzo. E la risposta di mia madre fu “Tu non ne hai bisogno”. Fino a quel momento la mia disabilità motoria era stata un piccolo “accessorio” della mia vita: avevo comunque una buona autonomia, potevo a mio modo camminare, vestirmi da sola, andare in bagno da sola, mangiare da sola. Studiavo, andavo bene a scuola, volevo fare l’Università, sapevo che un giorno avrei lavorato come tutti gli altri, sapevo che un giorno avrei pure guidato l’automobile, con i giusti ausili al volante. Avere amici, giocare con loro, uscire con loro non era mai stato un problema. Mi sentivo destinata a una vita molto normale, con qualche difficoltà motoria in più, ma del tutto normale. Cominciai invece a capire che agli occhi dei miei famigliari la mia vita sarebbe stata normale fino a un certo punto, cioè in tutto ma non nel settore dell’affettività/sessualità. Lì avrei incontrato gli ostacoli: chi avrebbe trovato attraente il mio corpo diverso (con o senza reggiseno)? Chi avrebbe superato le difficoltà motorie per costruire una relazione di coppia con me? Fu molto difficile – da lì all’età adulta – costruire una mia identità corporea e fidarmi dell’altro da me, con quello sguardo squalificante sempre presente da parte della mia famiglia.
Da quindici anni ormai lavoro al Centro Documentazione Handicap di Bologna, e ho colleghi con disabilità molto più gravi della mia, che limitano seriamente l’autonomia personale quotidiana. I percorsi familiari tra me e loro sono molto simili, con la differenza che io ho potuto conoscere il mio corpo da sola e trovare delle risorse, loro no. Chi infatti ha bisogno costantemente di aiuto per compiere qualunque gesto della vita quotidiana, viene sempre “manipolato” da altri come una marionetta, ma non riesce ad avere una percezione completa di sé. Molti miei colleghi non si erano mai visti allo specchio come persone intere, ad esempio non si erano mai visti la schiena, oppure non sapevano se erano alti o bassi stando sempre seduti sulla carrozzina. Chi non ha consapevolezza del proprio corpo, come può avere l’autostima e la voglia di andare verso il corpo degli altri? Come può vivere una sessualità? Sia ben chiaro, per sessualità non si intende solo l’atto sessuale, ma qualunque forma di comunicazione e di espressione di sé che ti fa essere in relazione con un’altra persona.
Il dibattito sulla sessualità delle persone disabili ormai è acceso, ma occorre la massima attenzione per non cadere in un’idea di “sessualità disabile”: non esiste una sessualità dei disabili e una sessualità dei normali, esiste solo la sessualità. E proprio la sessualità fa sì che le persone disabili siano uguali a tutti gli altri, perché è proprio la sessualità che ognuno di noi vive in forme completamente diverse. La sessualità ci rende tutti simili (e normali) ma anche tutti differenti. Come bisogna fare allora per avere un’idea inclusiva di sessualità? Sapete cosa mi verrebbe da rispondere? “Niente”. Sì perché il parlarne, trovare soluzioni e strategie che debbano essere diverse da quelle dei “normodotati” non mi fa pensare all’inclusione. Per tanti “normodotati” che hanno difficoltà a relazionarsi e ad avere una vita sentimentale/sessuale non viene fatto nulla, perché dovrebbe essere diverso per le persone disabili? Poi però penso a quelle persone disabili che hanno scarsissime autonomie e non hanno la possibilità di avere luoghi e occasioni per conoscere ed esprimere se stessi. La sessualità (spesso intesa come sesso) è un diritto? No, per me non è un diritto. L’unico vero diritto per me è quello di avere accesso alla conoscenza del proprio corpo e avere accesso ad esprimere il proprio modo di comunicare con gli altri. Se la figura dell’assistente sessuale, che ora ormai ha monopolizzato il dibattito sulla sessualità, può essere un modo per esplorare il proprio corpo, aumentare l’autostima, ricevere su di sé mani che danno e provano piacere e non solo mani di un fisioterapista, di un assistente domiciliare, di un famigliare… allora bene. Personalmente non sono contraria all’introduzione di questa figura anche in Italia. Ho anche conosciuto a dibattiti e convegni due persone, un uomo e una donna, che esercitano come assistenti sessuali in Svizzera. Devo ammettere che parlandoci di persona, mi sono dovuta ricredere su alcune ostilità che nutrivo. Si tratta di persone davvero ben preparate, che conoscono la disabilità, e le dinamiche sociali e familiari interconnesse. Sono persone molto serene con la propria sessualità e con quella altrui, e sanno gestire inconvenienti (come il “paziente” che si innamora del “terapista”) e situazioni emotive di qualunque tipo. Le mie perplessità non riguardano la figura dell’assistente sessuale in sé ma tutto ciò che ruota attorno. Chi formerà chi? Chi deciderà cosa? Servirà una prescrizione medica? Allora si ritorna al discorso della “fisioterapia”, della riabilitazione, della cura, come se esistesse una sessualità malata e una sana. Ci si potrà rivolgere all’assistente sessuale in proprio, come si prenota un appuntamento dal dentista o dall’oculista? E chi non ha autonomia e dovrà chiedere a qualcun altro di telefonare all’assistente sessuale o di farsi portare, troverà persone intorno a sé aperte mentalmente? E le donne disabili? Quale donna con disabilità, in Italia, avrà il coraggio di dichiarare di volere andare da un assistente sessuale, e chi la porterà? E una volta avviato il percorso con l’assistente sessuale, chi si farà carico di tutto ciò che emotivamente e fisicamente questo incontro scatenerà?
Per me inclusione significa lavorare su livelli diversi e contemporaneamente. La mia paura più grande è che creando percorsi ad hoc si finisca per avere degli alibi e non preoccuparsi più del tema: “hai l’assistente sessuale, cosa vuoi di più?”. Ma l’assistente sessuale è solo una piccola parte del tutto, è la parte più rumorosa, quella più ambigua, quella più accattivante, quella più illusoria… Occorre continuare a svolgere un lavoro culturale con le famiglie, gli educatori, gli insegnanti, gli operatori, gli assistenti domiciliari, i volontari… Occorrono percorsi di educazione sessuale, che non è solo (nei rari casi in cui viene svolta) l’uso corretto del preservativo, ma è educazione alla sessualità, al proprio sé. Affinché non si pensi che per i disabili l’unica via per vivere una sana sessualità sia l’assistenza sessuale. Essa è solo una scelta in più (non per tutti). L’importante è creare per tutti le condizioni per poter esprimere il proprio essere. La vera sfida, oggi, per parlare di sessualità e affettività delle persone disabili è affidare al corpo una pienezza di senso e di valore. Perché non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo.
Vogliamo il pane e le rose… ma siamo pronti a coglierle?
di Francesca Arcadu
“L'amore è tutto carte da decifrare e lunghe notti e giorni per imparare…”
Ivano Fossati
Da diversi mesi seguo con interesse il dibattito nazionale sul diritto all’affettività e sessualità delle persone con disabilità, interrogandomi ogni volta su cosa rappresenti tale “diritto” e fino a che punto possa essere definito tale, comprendendo bene che quando si parla di sentimenti e di sessualità tutto si faccia più labile, i confini e la percezione personale e la capacità di delinearli con precisione. Proverò dunque a dire la mia, col desiderio di condividere riflessioni e consapevolezze raggiunte in quasi quaranta anni di onorata disabilità al femminile.
Parlare di amore e sesso sotto forma di diritti esigibili da normare mi riesce difficile, avendoli sempre vissuti come conquiste da raggiungere solo dopo un percorso personale di autodeterminazione, crescita, confronto con l’altro e necessaria maturazione di un IO capace di misurarsi coi sentimenti, con l’anelito che ci spinge verso gli altri e dagli altri riceve, in uno scambio costante e non sempre fecondo. Per vivere questo scambio occorre prima aver fatto i conti con sé, con i propri desideri, con l’immagine che proiettiamo all’esterno e con le aspettative che ci portiamo dietro, premesse necessarie per imbastire rapporti umani e mettersi gioiosamente in gioco nel difficile mondo delle relazioni.
Credo che per noi persone con disabilità sia la premessa più difficile che ci sia, guardarsi dentro, riconoscersi, amarsi tanto da pensare che qualcun altro possa farlo, piacersi e considerarsi attraenti tanto da poter attrarre. Un vero casino se il tuo corpo non ti rispecchia, se la tua mente è sexy ma le tue gambe non lo sono affatto secondo i canoni consueti, se il tuo spirito è leggero e frizzante ma il tuo corpo è zavorrato. Si, è difficile, la sfida già complessa diventa quasi impossibile ma a questo punto si aprono due vie: o provarci, buttarsi nella mischia e vivere i sentimenti come tutti, vittorie e sconfitte, rifiuti cocenti e timide vittorie oppure stare in panchina, fare le riserve, giocare solo ai supplementari e con altre regole, magari con un sacco di punti di vantaggio e il pallone e mio e se non mi fai giocare me lo porto via…
Perché non crediate che là fuori, tra i cosiddetti normodotati le cose siano più semplici. L’amore e la sessualità sono un trabocchetto anche per i migliori, ci si casca tutti e tutte e non ci sono regole che valgano a prescindere, regole che se hai un corpo “normale” e sano portano dritte alla vittoria.
“Magaaari!” direbbero in coro le mie amiche normodotate e single incallite.
Il diritto alla sessualità non può essere riconosciuto per legge, né normato garantendo la vittoria a tavolino. E’ un percorso da riconoscere e vivere passando attraverso altre vie, è un allenamento sul campo, è un intero campionato da giocare in squadra, prima con sé stessi e poi con chi ci circonda. E’ come voler fare goal senza aver palleggiato lungo il campo, senza aver sudato o aver fatto gavetta in panchina, per continuare per metafore sportive.E lo dico per averle vissute sulla mia pelle queste esperienze di formazione sentimentale, attraverso relazioni più o meno brevi e importanti, che hanno lasciato consapevolezze oltre che cicatrici, pianti a dirotto o bellissimi ricordi. E dopo aver seminato ho raccolto, con una storia bella e importante che va avanti da anni e continua a farmi crescere come persona.
Con la stessa entusiasmante forza con cui molte persone con disabilità si battono per avere l’assistenza sessuale, che consenta a tutti e tutte di poter vivere la propria sessualità in modo “assistito” e “garantito”, forse ci si dovrebbe impegnare per vedersi riconosciuti come soggetti in grado di mettersi in gioco coi sentimenti, con il corpo, come soggetti in grado di relazionarsi e prendere fregature, sedurre, piacere o essere considerati “pesanti” e non interessanti. Come capita a chi si muove sulle sue gambe o chi non ha alcun handicap evidente. Vivere l’affettività e la sessualità in maniera inclusiva, a mio parere, significa battersi perché la società ci metta nelle condizioni di partecipare ed esprimere il nostro potenziale. Scuola, lavoro, vita indipendente, cultura, mobilità e relazione, ecco i campi in cui giocare la nostra partita e cercare di farlo al meglio, ciascuno come può e come riesce, col suo potenziale, per essere cittadini e cittadine con pieni diritti e doveri.
Sono del parere che anziché cercare di normare il diritto all’affettività e organizzare corsi per l’assistenza sessuale da garantire e finanziare per legge, forse si dovrebbe potenziare il percorso di accompagnamento psicologico di molte persone con disabilità, il prezioso ruolo dei gruppi di auto-aiuto, la consulenza alla pari. Tutti strumenti che consentono alle persone disabili di confrontarsi, riconoscere i propri percorsi, affrontare le difficoltà e potenziare il proprio bagaglio emotivo, per superare paure e debolezze e costruire così quella impalcatura in grado di reggere il confronto con gli altri. Solo così ci si mette in grado di vivere rapporti umanialla pari, di mettersi in discussione e fare il salto di qualità.
Perché immaginare un diritto alla sessualità scollegato dalla partecipazione, dal confronto, dall’altrettanto diritto ad essere sconfitti e rifiutati, che appartiene al genere umano senza distinzione di condizione fisica, io lo vedo come un autoisolamento, un autogoal che col tempo e con una progressiva pigrizia mentale, verso la quale ahimè siamo pericolosamente inclinati, autorizzerà le persone – normodotate e disabili, si badi bene – a credere che gli uomini e le donne con disabilità non possano essere soggetti attivi nei rapporti di relazione, ma abbiano bisogno di attenzioni speciali, rapporti speciali, competenze speciali e spazi tutti loro per esprimerli.
Proporsi come persone speciali oppure no, questo è il problema
di Simona Lancioni
C’è chi sostiene che la presenza della disabilità, unita ai pregiudizi e alle discriminazioni sociali che solitamente si associano ad essa, induca le persone disabili a vivere la sessualità in modo completamente differente dalle altre persone, talmente differente da richiedere interventi e percorsi separati e dedicati. Esisterebbe, insomma, una sorta di “sessualità disabile”, intesa come sessualità delle persone con disabilità, alla quale sarebbe necessario rispondere con prestazioni speciali, diverse da quelle pensate per tutte e tutti. Possiamo chiamare questo approccio “modello della separazione”.
Ora dovete sapere che io soffro di una specie di riflesso condizionato, e quando qualcuno o qualcuna mi viene a dire che le persone con disabilità devono fare le cose in luoghi separati e con servizi dedicati, a me viene da rispondere «anche no!». Mi dicono, ad esempio, «le persone con disabilità dovrebbero studiare in scuole speciali appositamente costruite per loro» e l’«anche no!» parte in automatico. Le persone con disabilità dovrebbero vivere in luoghi e spazi dedicati? «Anche no!» Le persone con disabilità dovrebbero viaggiare su mezzi pubblici diversi da quelli utilizzati dalle altre persone? «Anche no!» Rispondere in questo modo è per me un impulso irresistibile, un po’ come per Roger Rabbit – il goffo coniglio animato della pellicola “Chi ha incastrato Roger Rabbit” (1988) – completare il curioso motivetto “Ammazza la vecchia col flit”.
Perché non mi piacciono i percorsi, i servizi e i luoghi separati? Perché li considero un prerequisito per la segregazione dei soggetti più deboli della società. Una “gabbia accessoriata” per le persone disabili non smette di essere “gabbia” solo perché accessoriata. Forse al suo interno le persone disabili potranno anche trovare qualcuna delle risposte ai propri bisogni, ma quel luogo dedicato e separato impedisce che esse diventino, e siano considerate, parte integrante della società. Allora bisognerebbe trovare il modo di rispondere ai bisogni senza ghettizzare nessuno e nessuna. E se questo vale in campo educativo, in quello abitativo, in quello dei trasporti pubblici, ecc., perché mai non dovrebbe valere in materia di salute sessuale? Le persone con disabilità dovrebbero esprimere la propria sessualità attraverso interventi e percorsi separati e dedicati? «Anche no!» protesta risoluto il “coniglio animato” che è in me.
Tradurre in termini concreti questo modo di pensare vuol dire partire dal presupposto che, pur non negando le differenze e le difficoltà incontrate dalle persone con disabilità in campo sessuale, anche la loro sessualità può essere tranquillamente inquadrata e affrontata nell’ambito della sessualità umana. Ma se questo è il presupposto, allora i servizi e le prestazioni prospettate da chi sposa questo approccio dovranno essere necessariamente rivolte non alle sole persone con disabilità certificata, ma a qualunque persona si trovi in una situazione di salute sessuale tale da richiedere un dato tipo di intervento. Possiamo chiamare questo approccio “modello dell’inclusione”.
Per capire come sia possibile descrivere la disabilità e la salute senza categorizzare le persone basta consultare l’ICF, la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 2001. Questo strumento non serve a “catalogare” le persone, bensì ad illustrare il loro stato di salute. Con esso l’OMS ha voluto descrivere il funzionamento umano nel suo complesso, non la sola disabilità. Infatti l’ICF è un “modello universale” capace di includere tutti gli stati di salute degli esseri umani, le caratteristiche personali di questi ultimi, ed il loro contesto ambientale. Questo modello non distingue tra persone disabili e non, ma definisce un continuum multidimensionale lungo il quale ci collochiamo tutti e tutte.
Ritornando dunque al tema sessualità e disabilità, chi vuole muoversi nel rispetto delle indicazioni dell’OMS accennate poc’anzi, non può distinguere tra una “sessualità delle persone con disabilità” e una “sessualità delle altre persone”, può solo convenire che per tutte le persone esiste un’unica sessualità, ed è quella umana. La circostanza che la sessualità umana si possa esprimere in modi diversi, e che alcune persone (non solo disabili) possano incontrare ostacoli nell’esprimerla, non deve far dimenticare che, in qualunque modo essa si concretizzi, sempre di sessualità umana stiamo parlando. Ciò, ovviamente, non significa che l’innegabile discriminazione sessuale subita dalle persone disabili proprio a causa della loro disabilità non vada riconosciuta e superata (nel momento in cui l’ICF prevede di considerare i fattori ambientali e personali la loro rilevanza è chiaramente esplicitata), significa invece che se decidiamo di proporre dei servizi o delle prestazioni in questo campo dobbiamo sforzarci di proporre soluzioni inclusive. Detto ancora più chiaramente: ognuno e ognuna è libero/a di rivendicare tutti i servizi e le prestazioni che ritiene lecite e utili, purché l’intervento venga pensato in relazione alla situazione di salute sessuale riscontrata e non a gruppi di persone “catalogate” in base alle certificazioni di handicap o invalidità. Pertanto, se, ad esempio, si vuole promuovere un servizio di assistenza sessuale, questo andrà rivolto a chiunque abbia un certo tipo di difficoltà sessuale. In questo modo, se il servizio verrà attivato, anche le persone con disabilità che dovessero averne bisogno potranno fruirne, ma, non trattandosi di un sevizio separato e dedicato, esse saranno maggiormente tutelate dal rischio di segregazione.
E’ importante, infine, considerare il diverso impatto che i due modelli (quello della separazione e quello dell’inclusione) potrebbero avere in ambito relazionale e culturale. Infatti, se già adesso molte persone con disabilità incontrano delle difficoltà ad intraprendere e mantenere relazioni intime (sessuali e/o affettive), dobbiamo chiederci cosa succederebbe se davvero dovesse passare il messaggio che la loro sessualità è così diversa da richiedere una categoria a sé stante e servizi speciali. Io credo che se le persone disabili riterranno di proporsi e presentarsi come diverse, allora dovranno anchemettere in conto che questa scelta comunicativa potrebbe indurre molti e molte a trattarle da diverse. Che questo tipo di comunicazione abbia questo tipo di esito è abbastanza scontato. Se invece, pur non negando le differenze, esse sceglieranno di sottolineare la loro comune appartenenza al genere umano, anche le persone con le quali si relazionano saranno invogliate ad accoglierle come simili. Quella “logica di separazione”, che nelle (buone) intenzioni di chi la promuove dovrebbe portare al vantaggio immediato di ottenere servizi e prestazioni esclusive, si rivela un boomerang sotto il profilo relazionale e culturale. Vale la pena di esporsi ad un contraccolpo simile? In ossequio al motto «Nulla su di noi senza di noi», scelto dal Movimento mondiale delle persone con disabilità, possiamo convenire che solo queste ultime sono legittimate a decidere in merito. Agli altri e alle altre non resta che attendere l’importante responso, e rispettarlo. “Conigli animati” permettendo.
Vedi anche: Andrea Pancaldi, La sessualità e le parole che “danzano in punta di piedi”, «Superando.it», 30 aprile 2014 Simona Lancioni, La sessualità e la “banalità del bene”, «Superando.it», 8 maggio 2014 Simona Lancioni, L’assistenza sessuale e la “morale del leopardo”, «Superando.it», 3 luglio 2014 Torna all’indice Ultimo aggiornamento: 07.09.2014