intervista doppia a Maria Chiara ed Elena Paolini a cura di Silvia Lisena
Quando si parla di disabilità in Italia, parte l'elenco delle tante cose che non vanno, e a volte di quelle che invece funzionano. Ciò che forse manca – o almeno non è molto sviluppata – è la “disability culture”, ossia i racconti della disabilità privi di carattere tecnico, legislativo, morale o via dicendo. Racconti di vita, di una vita con disabilità, ma pur sempre una vita, corredata dalle altre mille cose ordinarie che riempiono i giorni di qualsiasi persona: in pratica, racconti pieni di autoironia, di determinazione, di attivismo, che non hanno l'intento esclusivo di denunciare le problematiche di una vita con disabilità e neanche quello di celebrare iperbolicamente e forse pomposamente tale vita, ma assolvono alla loro primaria e basica funzione, ossia quella di raccontare.
Ho intervistato Maria Chiara ed Elena Paolini, due sorelle in carrozzina che hanno aperto il blog Witty Wheels (consultabile anche via Facebook), dove raccontano curiosi aneddoti sulla loro vita, che tra l'altro adesso conducono nientemeno che in una grande metropoli come Londra. Non mancano post ironici che narrano la faticosa ricerca di un'assistente personale, ma anche riflessioni serie su argomenti importanti quali il rapporto tra scuola e inclusione.
Il tutto in una cornice vivace, allegra e spigliata, proprio come queste due ragazze che hanno davvero tanta grinta da vendere.
Ciao ragazze! Vi ringraziamo di aver voluto gentilmente concederci questa intervista. «Grazie a voi!!»
Per prima cosa, presentatevi brevemente. Maria Chiara: «Mi chiamo Maria Chiara Paolini, ho 24 anni, ho studiato Lingue a Macerata e ora faccio un corso di arabo alla SOAS di Londra e contemporaneamente cerco un lavoro.» Elena: «Sono Elena Paolini, ho 19 anni e studio Relazioni internazionali alla University of Westminster di Londra. Siamo due sorelle di Senigallia (AN) ed entrambe siamo in carrozzina»
Quando e perché è nata l'idea del blog Witty Wheels? Maria Chiara: «Scrivere ci è sempre piaciuto tantissimo, e negli ultimi due anni abbiamo cominciato a seguire vari blog sulla disabilità inglesi e americani. In Inghilterra e negli Stati Uniti abbondano i blog di questo tipo (molto ben scritti, briosi e ironici): lì la cosiddetta "disability culture" é molto più sentita e viva che da noi. É proprio questo misto di autoironia e attivismo sociale che ci ha colpito e che cerchiamo di ricreare in parte con "Witty Wheels". Pensiamo che in un paese come l'Italia i cosiddetti "normodotati" abbiano un gran bisogno di confrontarsi con punti di vista "inediti" e far cadere i propri pregiudizi, e i disabili di cominciare a darsi da fare più concretamente per i propri diritti.» Elena: «I blog sono importanti, perché danno informazioni di prima mano e possibilità di confronto diretto, e sono diffusissimi in America, dove si creano conversazioni tra bloggers che sono illuminanti - scusate la banalità della parola, ma lo sono. In Italia non c'è ancora una “disability culture” vera e propria, le forme di associazione dei disabili sono principalmente i gruppi di raccolta fondi per le diverse patologie, mentre io credo sia importante focalizzarsi sulla componente sociale della disabilità, oltre che su quella medica. Internet è un mezzo potente – e, cosa molto importante, privo delle barriere architettoniche che hanno relegato i disabili alla subalternità. Può unire le persone e diventare un veicolo di riscatto sociale.»
Maria Chiara, hai scritto un post molto interessante che disprezza le scuole speciali riconoscendo, invece, all'Italia il merito di aver pensato all'inclusione degli studenti con disabilità... almeno a livello teorico. A livello pratico, purtroppo, la situazione è ancora arretrata. Cosa si potrebbe fare, secondo te, per migliorarla? «Io mi ritengo fortunata ad aver frequentato la scuola dell'obbligo italiana. Per molti miei coetanei europei in carrozzina non è affatto scontato poter stare in classe con i “bipedi”. La situazione italiana però è tutt’altro che rosea: è necessario destinare più fondi all’assistenza personale e al sostegno nonché rendere accessibili gli edifici scolastici. Molto sta anche alle famiglie, nel senso che i diritti vanno sempre esercitati: il motto con cui ci hanno cresciuto i nostri genitori è stato: mai accontentarsi e rompere le palle alle amministrazioni pubbliche. Alla fine servizi sociali e company ci odiavano, ma chissà perché i soldi in qualche modo uscivano sempre fuori.»
Elena, hai raccontato la tua brutta esperienza della gita a Praga e a Salisburgo, completamente mal gestita dagli organizzatori. Qual è stata, invece, un'esperienza bella che hai vissuto, in cui non hai avuto problemi – o ne hai avuti pochi – in termini di accessibilità? «Faccio un po' fatica a fare mente locale: tendo a non notare quando le esperienze sono prive di barriere architettoniche, dato che dovrebbero essere la normalità. Facendo un parallelo con la gita a Praga mi viene in mente sempre una gita scolastica, a Lione, dove tutto è filato liscio come l'olio grazie all'impegno delle prof che l'hanno organizzata. In effetti basta solo un po’ d'attenzione nello scegliere i posti da visitare, avendo cura di informarsi se sono accessibili o meno. Spesso le barriere architettoniche pregiudicano in parte il divertimento in una situazione e ti fanno insultare pesantemente chi l'ha organizzata, però poi il gruppo si mobilita per aiutarti a superarle e allora diventa un momento di condivisione e sensibilizzazione, come è successo a Praga. La stessa persona che ha organizzato il viaggio a Praga ne ha organizzato un gemellaggio in Germania. Stavamo nelle famiglie e la prima sera, in piena digestione e chiacchiere post-cena in tedesco stentato, scopro che... le camere sono al piano di sopra! Non vi dico che bellezza essere presa in braccio dal padre e dalla madre del corrispondente tedesco due o più volte al giorno per fare le scale (!), però va a finire che in qualche modo bruci le tappe di un “normale” rapporto di conoscenza ed è bello anche così, inevitabilmente ci diventi amica prima! Insomma, una cosa tipo: non tutto il male vien per nuocere, oppure: trova il lato positivo di ogni cosa. Alla fine certe situazioni sono così assurde che non puoi fare a meno di riderci su.»
Parliamo del “sentirsi disabili”: avete dedicato vari post sia ironici – il decalogo delle situazioni imbarazzanti di una persona in carrozzina – sia seri – la riflessione sul fatto che spesso il disabile si sente tale quando si scontra con gli atteggiamenti della società. Secondo voi, ad oggi, è stata realizzata l'inclusione per una persona con disabilità, e in particolare per una persona in carrozzina? Maria Chiara: «State scherzando, vero? :) No, affatto, c’è una lunga strada da percorrere. La nostra società é ancora fortemente abilista e per quanto riguarda la disabilità continua ad imperare il modello medico invece che quello sociale. Per capirci, ogni bipede e ogni disabile sa che cosa sia Telethon, ma pochissimi hanno idea di cosa sia la Vita Indipendente di Ed Roberts o la filosofia che sta dietro alla figura dell’Assistente Personale. Viviamo in un paese dove ancora la nascita di un figlio disabile comporta per la famiglia un impatto economico determinante, essendo il welfare debolissimo; dove le assistenti sociali non ti avvertono dei (pochi) benefici che ti spettano; dove le persone in carrozzina si vedono poco in giro perché le città sono piene di scalini.»
Elena: «No che non si è realizzata! Nella mia città solo per andare al lungomare devo sudare sette camicie – cioè, se le deve sudare chi mi spinge – per i crateri che costellano il marciapiede. Molti uffici pubblici non sono accessibili, le scuole, le università, i negozi, i bancomat non sono accessibili. Le barriere architettoniche sono uno dei grandi ostacoli all'inclusione, poi ci sono i pregiudizi culturali, risultato di secoli in cui i disabili erano relegati in casa, o peggio. Poi, ancora, ci sono le difficoltà economiche di chi deve sostenere spese extra per la sua disabilità: carrozzine, attrezzature particolari, assistenti, tutte cose che aumentano l’autonomia e le possibilità dei disabili ma che non sono coperte adeguatamente, e spesso sono cose di cui uno deve scoprire da solo l’esistenza e lottare per averle. È un circolo vizioso purtroppo, perché se i disabili non frequentano certi ambienti a causa di barriere architettoniche o supporti inadeguati la cultura non si evolve, i pregiudizi non si sradicano, l'inclusione non si realizza. Io dall'anno scorso ho delle assistenti full-time, grazie alle quali posso fare ciò che voglio senza dover contare sulla disponibilità dei miei familiari. La presenza delle mie assistenti annulla il mio handicap e rende possibile la mia completa – barriere architettoniche permettendo – partecipazione alla società. Assumere delle assistenti significa fare una Vita Indipendente, che è una filosofia ancora poco conosciuta in Italia e di cui abbiamo parlato un po’ sul blog. Io e Chiara stiamo progettando una campagna per farla conoscere maggiormente.»
Attualmente siete entrambe a Londra. Come descrivereste la vostra esperienza? Quali sono i pregi e i difetti della capitale britannica, in quanto ad accessibilità? Maria Chiara: «L’esperienza è fantastica (come lo è, credo, qualunque soggiorno all'estero per studio). Amo questa città per il suo dinamismo e l’incontro di persone provenienti da tutto il mondo. C’è fra l’altro una sensibilità diversa nei confronti della disabilità: in poche parole, meno compassione e più fatti concreti. Un esempio eloquente lo si ha quando si cerca di attraversare un luogo affollato. A differenza dell’“italiano medio” che ti fissa e non si sposta, qui le folle al vedere una carrozzina ti si aprono davanti stile Mar Rosso.» Elena: «L’esperienza è… una figata, ma ci sono state varie difficoltà, prima fra tutte il fatto che se sono previsti e in qualche modo facilitati gli studenti disabili Erasmus, non è previsto che un disabile non inglese vada a fare un intero corso di laurea nel Regno Unito. Quindi non ci sono aiuti economici specifici. Qui molti trasporti pubblici sono accessibili, ma Londra è ben lontana dall’essere la città ideale per chi si muove in carrozzina. Strade e marciapiedi sono lisci e ben fatti, autobus e taxi sono tutti accessibili e anche parte della metro. In realtà però gli autobus sono lenti, affollatissimi e lo spazio per carrozzine è spesso occupato da passeggini o peggio, gente con le valigie, e se non vuoi aspettare al freddo il prossimo autobus devi fare la voce grossa. I taxi costano e non possono essere un mezzo da usare a lungo termine. La metro è accessibile più che altro in periferia, sono solo tre le stazioni accessibili in centro centro: Westminster, Green Park e King’s Cross. Ok, paragonato all’Italia è un sacco, ma ovviamente non ci si può accontentare di un servizio più che dimezzato rispetto agli “abili”. Londra è enorme e i trasporti pubblici, soprattutto la metro, sono vitali per potersi muovere liberamente per la città. Aggiungo un’altra cosa: qui nel Regno Unito ci sono ancora le scuole speciali, che in Italia sono state abolite da un pezzo. Ci sono scuole dell’obbligo categorizzate per disabilità, ed è orrendo vedere che ci sono ancora scuole tutte per ciechi, tutte per sordi, tutte per disabili motori, tutte per disabili psichici, tutte per disabili psico-fisici. Siamo nel 2015 e là fuori ci sono le luci scintillanti di Piccadilly Circus e del London Eye, ma non hanno ancora capito che delle scuole simili non sono altro che ghetti e che non ha senso creare una vita “protetta” in queste strutture diversa dalla vita reale.»
Ultimo aggiornamento: 12 ottobre 2015